Premessa:
l’eredità classica
Il
mondo classico ha esplorato vastissimi campi del sapere, sia in
quelle che oggi chiamiamo
scienze
umane,
sia nelle scienze
naturali e
nelle scienze
esatte.
C’è
però una grossa lacuna, relativa alla linguistica.
Per
i greci
l’unico
interesse di tipo linguistico era la grammatica
e storia della lingua greca;
per
i romani,
grammatica
e storia della lingua latina.
Non si sono mai occupati
scientificamente
e con sistematicità delle lingue dei “barbari”.
In
quella che chiamiamo “età classica”, per noi la Grecia è il
centro del mondo. Da un punto di
vista
storico più complessivo, la Grecia era la periferia dell’Impero
Persiano.
E
gran parte delle informazioni che noi possediamo su quella grande
civiltà ci vengono appunto dalle opere degli storici e dei geografi
greci. Moltissimi Greci, nell’età classica, e poi nell’età
ellenistica, avevano necessariamente una pratica quotidiana con le
diverse lingue di quell’immenso
mosaico
di popoli.
Ma
il mondo greco non ci ha lasciato nessuna grammatica del fenicio,
dell’aramaico,
dell’egiziano.
Così,
i Romani nel corso della storia hanno dovuto comunicare con popoli
diversissimi, ma non ci hanno lasciato una grammatica della lingua
dei Sanniti,
o dei Galli.
Meno
che mai, ovviamente, l’antichità classica ha riflettuto sulle
somiglianze
e le differenze fra le diverse lingue,
se non per confronti episodici fra vocaboli dal suono simile.
Fa
eccezione a quanto detto prima l’imperatore Claudio,
che aveva studiato approfonditamente la cultura e (forse) la lingua
degli Etruschi,
e aveva condensato le sue ricerche in un libro dal titolo Thyrrenica.
Purtroppo
quest’opera non c’è arrivato nulla; è forse
scomparsa
immediatamente dopo la morte dell’autore, quando, su impulso del
saggio Seneca, le migliori menti dell’aristocrazia romana si
esaltavano per l’illuminato regno del giovane.
Nerone,
e gli studi eruditi del malmostoso Claudio venivano derisi come la
bizzarria di un vecchio pazzo.
È
anche importante, in età cristiana, l’opera dei missionari,
per i quali l’incontro con lingue diverse doveva essere un tema di
costante e profonda riflessione.
Quando
il vescovo Wulfila,
lui stesso mezzo goto e mezzo greco, tradusse le Sacre Scritture dal
greco nella lingua dei
Goti,
dovette per prima cosa escogitare un nuovo alfabeto, aggiungendo alle
lettere greche segni necessari per esprimere i suoni di una lingua
germanica; e questo deve aver richiesto lunghe riflessioni sulla
fonologia
delle
due lingue.
L’esigenza
di tradurre il più possibile alla lettera il testo biblico imponeva
di sviluppare l’embrione di un’analisi
comparata della
grammatica e della sintassi delle due lingue. Di queste riflessioni
non sappiamo nulla, essendoci arrivato soltanto il risultato finale,
cioè la traduzione; per di più, un testo che non sembra essere
stato conosciuto al di fuori del gruppo etnico a cui era destinato.
Quando
si arriva a quel gran rimescolamento etnico e linguistico che è
l’Alto Medioevo, noi vorremmo essere informati su tante cose.
Per
esempio la struttura
delle lingue germaniche,
i
loro
caratteri comuni, le loro differenze, le loro reciproche influenze,
la loro evoluzione.
Vorremmo
sapere qualcosa sull’origine
delle lingue romanze,
e sapere quando la lingua
parlata
comincia a differenziarsi dalla lingua scritta al punto tale che non
si può più parlare di due
varianti della stessa lingua,
ma di due
lingue diverse.
A
domande di questo genere è sempre molto difficile dare una risposta.
Gli
autori del tempo non avevano neanche gli strumenti culturali per
formulare
quella domanda.
Essi
conoscevano
sicuramente, oltre al latino scritto che maneggiavano più o meno
bene, almeno una, e spesso più di una, delle lingue parlate; e
Romani e Germani dovevano pur comunicare fra di loro.
Ma
non
avevano ricevuto dal passato le parole,
i concetti
per
dare una descrizione di quelle lingue e dei rapporti fra di esse.
Per
tutto il medioevo, la parola “grammatica”
significa quel codice particolare che serve a comprendere la “lingua
dei libri”.
Il
massimo di competenza linguistica che si poteva avere
all’epoca
era la conoscenza di Elio
Donato.
Non
solo era inconcepibile l’idea di una grammatica di una lingua
diversa, ma ancora Dante
è
convinto che la gramatica,
cioè la lingua latina formalmente definita, sia una costruzione
artificiale, nata esclusivamente per lo scritto, e che gli stessi
Romani parlassero in realtà diverse forme di “volgare” non molto
dissimili dalla lingua dei suoi tempi.
Il
valore normativo della “grammatica” consiste nel suo
essere
un codice che trascende le circostanze di tempo e di spazio,
permettendo quindi la comunicazione in un ambito universale.
Non
è la descrizione di una lingua effettivamente usata in un certo
contesto storico. (De
Vulgari Eloquentia I,
1, 2 e I, 9, 11)
1.
Eginardo e la Vita
Karoli
Eginardo
(ca.
775-840) apparteneva all’alta aristocrazia franca. Era nato in una
località non precisata del Maingau,
la bassa valle del Meno, nel cuore di quello che di lì a poco
avrebbe costituito il Ducato
franco.
Ancora
giovinetto venne mandato a studiare nel monastero di Fulda,
dove manifestò subito grandi doti intellettuali, tanto che dopo
pochi anni, intorno al 792-794, l’abate Baugulfo
lo
mandò a perfezionarsi alla corte di Aquisgrana.
Qui
Alcuino
di York lo
prese sotto la sua custodia, e lo introdusse nel più avanzato
ambiente intellettuale
dell’epoca.
Fu
in stretta relazione con il sovrano, e poiché possedeva una copia di
Vitruvio veniva considerato esperto di architettura, tanto che gli fu
chiesto di occuparsi, non si sa in cheveste, della costruzione e
della decorazione del Palazzo di Aquisgrana e della Cappella
Palatina.
Dopo
la morte di Carlo passò al servizio di Ludovico
il Pio,
ricevendone in cambio il governo di diverse abbazie, nonostante fosse
un laico ed avesse una moglie di nome Emma.
Si
distaccò dalla corte imperiale nell’829, nel pieno dei conflitti
fra i pretendenti alla successione.
Passò
gli ultimi anni nell’abbazia di Selingenstadt, dove aveva
trasferito le reliquie dei martiri Marcellino e Pietro prelevandoli
di persona dalle catacombe romane.
Scrisse
la Vita
Karoli intorno
all’828~830 (tale datazione non e' accettata da tutti gli
studiosi).
Era
un uomo di grande e raffinata cultura; giusto all’inizio della sua
biografia colloca una citazione dalle Tusculane
di
Cicerone, tanto perché il lettore sappia con chi ha a che fare.
La
sua opera segue il modello delle biografie classiche, soprattutto la
Vita di
Augusto di
Svetonio: prima la narrazione dei fatti, in seguito la descrizione
del personaggio in tutti i suoi aspetti piu' rilevanti.
Eppure
si definisce barbarus,
et in Romana locutione perparum exercitatus (“barbaro,
e modestissimo conoscitore della lingua latina”) (Pref.).
In
queste parole c’e' sicuramente affettazione di modestia; ma io
sospetto anche la consapevolezza di una irriducibile diversità: non
basta essere un raffinato latinista
per
diventare un Romano.
E
forse non ci teneva neppure.
Dal
punto di vista strettamente storico, la narrazione è precisa, ma
molto stringata: la prima parte si riduce ad un lungo elenco di
guerre, seguite dall’immancabile vittoria, dovuta all’accortezza,
all’energia, alla costanza e all’abilità strategica del sovrano.
Anche
la narrazione dell’incoronazione
imperiale,
evento per noi centrale, è estremamente succinta.
Eginardo
mette in risalto la sorpresa di Carlo, che non era stato preavvisato
da papa Leone della
cerimonia, e il suo disappunto per aver accettato un titolo che
avrebbe potuto portargli seccature,
soprattutto nei rapporti con l’Impero d’Oriente.
Molto
più approfondita l’analisi del carattere, delle abitudini, degli
interessi e dei disegni dell’Imperatore.
Qui emergono i tratti di un vero progetto
culturale,
religioso
e
politico
di grande
coerenza e lungimiranza, anche se rimasto in gran parte incompiuto.
Naturalmente è
difficile
stabilire quanto ciò appartenga effettivamente alla lucida volontà
di Carlo, e quanto invece
sia la proiezione di una visione dell’autore, che cerca forse di
ottenere un
riconoscimento
postumo ad un progetto che vedeva non completato dal suo personaggio,
e poi del
tutto abbandonato dai successori.
2.
Regnare senza saper né leggere né scrivere
Nonostante
la vastità degli interessi e dei progetti culturali che Eginardo
attribuisce a Carlo,
l’imperatore
era quasi del tutto analfabeta.
Pativa evidentemente di questa limitazione, e poiché
soffriva di insonnia, teneva sotto il cuscino (secondo altri autori:
accanto al letto) tabulas...
et codicellos (“tavolette
e fogli”) su cui si esercitava litteris
effigiendis (“a
tracciare
le
lettere”); con scarso successo, però, poiché si era messo in
quest’impresa tardi, e la praticavasenza
sistematicità. (Cap. 25)
S’è
voluto sostenere che Carlo, nonostante questa difficoltà, fosse
capace di leggere.
Ed effettivamente
sono possibili condizioni di alfabetizzazione parziale, per cui un
soggetto, in difficoltà
con l’espressione scritta, riesce però a decifrare i segni
tracciati da altri, ed a leggere alcune
parole: come Renzo Tramaglino, che nella bottega dell’avvocato si
sforza di seguire sulla
carta, con lo sguardo, le parole della grida declamate ad alta voce
dal dottore.
È molto difficile
però che Carlo fosse in grado di leggere autonomamente un libro, né
mai Eginardo ce
lo mostra in quest’attività.
Dirò più avanti qualcosa a
proposito della “lettura” nell’Alto
Medioevo,
qui vorrei richiamare un altro passo. Carlo era molto devoto,
partecipava più volte al
giorno alle funzioni religiose, che erano qualcosa di molto diverso
dalla Messa come la intendiamo
oggi.
L’“ufficio” consisteva nella lettura di lunghe preghiere
in latino, e soprattutto
del Salterio su un tono di canto (salmodia).
Carlo curava l’arredo delle chiese, la ricchezza
dei paramenti sacri ecc., e “si occupò anche moltissimo di
correggere la maniera di leggere
e di salmodiare.
Era molto esperto in ambedue le cose, quantunque non
leggesse in pubblico
e non cantasse se non a bassa voce e in coro con gli altri”.
(Legendi
atque psallendi
disciplinam diligentissime emendauit. Erat enim utriusque admodum
eruditus,
quamquam
ipse nec publice legeret nec nisi submissim et in commune cantaret.
(Cap.
26)
Un
tale silenzio non derivava certo da timidezza, né da incertezza
nella parola (Eginardo lo definisce
scherzosamente dicaculus,
“persin troppo pronto alla battuta”). Evidentemente sintrattava
di mancanza
di famigliarità con la parola scritta.
Il Re dei Franchi, così attento al fasto e al decoro della liturgia,
si trovava all’atto pratico in una condizione non molto dissimile
da quella dei poveri conversi,
i quali, a parte qualche preghiera in latino imparata a memoria, e
una lunga assuefazione a osservare e imitare gesti e parole dei
chierici, durante l’ufficio potevano solo stare a capo chino, e
biascicare qualche parola a bassa voce, sperando che nessuno si
accorgesse dei loro strafalcioni.
La
cultura di Carlo, pur essendo notevole, secondo gli standard
dell’epoca, non solo a paragone
della quasi totalità dei laici, ma anche di buona parte degli
ecclesiastici, viveva
ancora
tutta nell’oralità,
e interamente orale era la conversazione con i grandi intellettuali
che frequentavano
la sua corte.
A
volte Eginardo usa anche il termine scripsit
(“scrisse”)
(Cap. 29) riferito a Carlo, ma il senso
della frase non è molto dissimile da quando si dice che un certo
sovrano “edificò” una chiesa,
un castello, una città...
3.
La lingua di Carlo
3.1.
La lingua dei Franchi...
Qui
ci inoltriamo in un terreno minato. Non perché sia difficile
stabilire quale fosse la lingua materna
–
anzi: il patrius
sermo –
del re, quanto perché si scontrano da mille anni opposti nazionalismi.
Fin dall’età degli Ottoni i tedeschi dicono che Carlo era tedesco,
i Francesi dicono
che Carlo era francese – per non essere da meno, i Belgi dicono che
Carlo era belga.
Come
spesso in questi casi, sbagliano tutti. Germania
e
Francia
(e
Belgio),
intese come le nazioni
che conosciamo oggi, al tempo di Carlo non
esistevano ancora.
Carlo era re dei Franchi,
un popolo di stirpe germanica che dalla zona di più antica
occupazione, la valle
del Reno,
si espandeva in tutte le direzioni: verso la Gallia di nord-ovest,
dove Siagrio
alla
fine del
V secolo aveva mantenuto in vita l’ultimo frammento di dominio
romano non sotto
controllo
germanico; verso sud-ovest, i Pirenei
baschi,
e l’Aquitania
visigotica;
verso sud, la terra
dei Burgundi,
e subito dopo l’Italia
longobarda e
bizantina;
verso l’est già civilizzato dei
Bavari,
degli Svevi,
degli Alamanni,
dei Turingi,
e poi l’immenso mondo selvaggio dei
barbari
Sassoni;
verso il nord dei Frisoni,
dei Danesi,
dei Normanni.
Lo sforzo di Carlo fu quello
di unificare tutto quel mondo in un grande Regno,
poi in un Impero
emulo
di quello di
Costantinopoli.
Poco dopo la morte dell’imperatore questo sogno finì nel disastro
delle lotte per
la successione; e la divisione
del Regno franco in due grossi tronconi, Francia e
Germania,
è il segno più clamoroso di questo fallimento.
Oggi
gli storici francesi traducono il termine Francia,
riferito alla patria di Carlo, con “Francie”,
per distinguerlo da “France”
che è invece la nazione moderna.
Carlo
era il re
dei Franchi,
ed il suo patrius
sermo era
ovviamente la lingua
dei Franchi.
Il
franco era una lingua
germanica,
ma questo non significa che Carlo fosse un “tedesco”.
Se per
“lingua tedesca” e “lingua francese” intendiamo idiomi con
una loro precisa identità ed omogeneità,
che definiscono due grandi nazionalità europee, questo alla fine
dell’VIII secolo è ancora
un anacronismo.
Non
abbiamo molti documenti della lingua dei Franchi di quell’epoca;
sappiamo però che apparteneva
al gruppo del “basso” tedesco (Plattdeutsch),
mentre il tedesco moderno
appartiene
al gruppo “alto”, caratterizzato dalla seconda
rotazione consonantica,
per intenderci
quel fenomeno per cui in inglese si dice three,
apple,
(to) do,
in tedesco drei,
Apfel, tun,
mentre in italiano le coppie banca
/
panca,
balla /
palla
segnalano
due diverse influenze germaniche.
Nei
testi dell’epoca – ma non nella Vita
di
Eginardo –troviamo il termine theotiscus
(da
cui in
seguito si ebbero sia “tedesco” sia “Deutsch”), che esprime
la consapevolezza di una certa affinità
fra diverse lingue; ma si tratta all’epoca di un insieme molto
vario e molto variabile, senza
confini certi. Non è una definizione “linguistica” nel senso in
cui la intendiamo noi.
È la
definizione di un “ambito” etnico che si riconosce per la sua
estraneità d’origine rispetto a quello
“romano”, senza avere ancora raggiunto una propria identità
precisa.
Eginardo
usa invece i termini Germania
e
Germani,
che non dimentichiamolo, erano nomi dati
dai Romani, non termini che usavano i Germani per indicare sé
stessi. Li usa quasi sempre
per indicare l’ambito etnico-geografico della Germania
come
la intendevano gli autori
romani, il mondo ad est del Reno e a nord del Danubio; a volte però
con una
connnotazione
di estraneità.
Nel Cap. 7 usa il termine Germania
in
contrapposizione al
mondo
dei Franchi, per indicare l’area orientale abitata dai Sassoni,
dove Carlo dovette
penare
a lungo per portare, col ferro, col fuoco e con le deportazioni di
massa, quei selvaggi all’obbedienza
della sua legge ed alla fede cristiana; ed è di nuovo la Germania,
questa volta la
Turingia,
l’ambiente in cui matura la congiura di Hardrad
per
scalzare il re.
(Cap. 20) 3.2.
... e le lingue degli altri
Carlo
conosceva anche le lingue degli altri, dei peregrini,
cioè degli “stranieri” – stranieri ovviamente
rispetto al mondo franco (Cap. 25).
Conosceva
la lingua latina:
naturalmente, poiché la sua era una cultura orale, conosceva il latino
parlato,
cioè la lingua parlata dai popoli di tradizione romana (o
“gallo-romana”, come amano
dire gli studiosi francesi).
Col
senno del poi, noi diciamo che si trattava dell’embrione delle
moderne lingue romanze.
Forzando
un po’ il testo, possiamo anche dire che si trattava dell’embrione
della lingua francese;
ma Eginardo non ce lo dice, dice solo che in quella lingua latina
sapeva
orare
quasi
altrettanto
bene che nella sua lingua
patria.
Qui gli studiosi si sono scervellati per capire che cosa
significhi quest’orare,
se “pregare”, oppure “pronunciare discorsi”, oppure
banalmente “conversare”.
Di una cosa siamo certi: non si tratta né di “leggere”, né di
“scrivere”: poiché queste
erano arti che Carlo non conosceva, in nessuna lingua.
Le due lingue,
quella “latina” e quella
“patria”, sono collocate in questo passo esattamente
sullo stesso piano;
non è
possibile
che si indichi con un termine una lingua scritta, con l’altra una
lingua parlata.
Capiva
qualcosa anche della lingua
greca,
anche se la parlava stentatamente.
Fino
all’incoronazione imperiale di Carlo, almeno nominalmente Roma era
inserita nell’Impero
bizantino. Inoltre, anche se la Chiesa di Roma e quella di
Costantinopoli erano per
tanti versi ormai lontane, non si era ancora ufficialmente consumato
il grande Scisma.
Le due
capitali erano in stretta relazione, e gli esponenti più di rilievo
della gerarchia cattolica dovevano
avere contatti più o meno costanti con i loro omologhi orientali.
La
tumultuosa espansione
islamica non aveva ancora del tutto cancellato l’importanza del
greco nelle relazioni
internazionali, in campo politico, come in quello religioso e
commerciale.
Naturalmente
per il greco vale lo stesso discorso del latino: alla lingua dei
libri si affiancava ormai
una lingua
parlata,
l’embrione di quella δημοτικὴ
γλῶσσα (“lingua
del popolo”) che non
aveva ancora uno statuto ufficiale, anzi, formalmente non esisteva,
poiché era considerata
solo
una diversa modalità
di espressione di
quella stessa lingua che era alla base della vita dello
Stato e della Chiesa d’Oriente; ma che sicuramente tutti parlavano, indipendentemente dalla
loro maggiore o minore competenza nella lingua scritta.
Anche nel
mondo greco il ceto colto
viveva ormai in una sostanziale diglossia,
ove tutti parlavano più o meno allo stesso modo,
e solo una minoranza colta usava, nello scritto, e in situazioni
ufficiali forse anche nel parlato,
la lingua antica.
In
Occidente ostentare una qualche conoscenza, anche di ripiego, della
lingua di quell’altro Impero,
per il ceto dominante era un obbligo sociale; e non se ne esime
neppure Eginardo, il quale
inserisce nella sua Vita
una
frasetta in greco, tanto per dimostrare di essere membro di
quel
club (Cap. 16).
Invece
Eginardo non ci dice assolutamente niente della competenza di Carlo
nelle altre
lingue germaniche.
Qual era il livello di mutua comprensione fra i diversi gruppi
etnici? In che lingua
parlava con quella moglie longobarda di cui non sappiamo neppure il
nome, e che il Manzoni
chiama poeticamente Ermengarda?
In che lingua parlava con i Visigoti
(fino a che punto
romanizzati?) d’Aquitania?
Con i Normanni?
Con i selvaggi Sassoni
della Germania?
Col
Sassone – ma non Germano
–
Alcuino? Con quei Turingi franchizzati (ma fino a che punto?)
che avevano cercato di scalzarlo?
Su queste cose possiamo solo
formulare ipotesi.
Nel
Cap. 15 c’è infine un’indicazione molto generica sulle
popolazioni barbaras
ac feras (“barbare
e selvagge”) che abitano la Germania inter
Rhenum ac Visulam fluuios
oceanumque
ac Danubium (“fra
il Reno, la Vistola, l’Oceano e il Danubio”) e che sono lingua
quidem poene similes, moribus uero atque habitu ualde dissimiles
“quasi
simili per
lingua,
ma assai dissimili per costumi e modi di vita”).
Si tratta di
popolazioni
slave,
la cui presenza
a est del mondo germanico segna un confine, geograficamente molto
fluido (“fra il Reno
e la Vistola” è indicazione decisamente troppo ampia), ma
linguisticamente benmarcato.
Alla definizione di Germania
che
era stata ereditata dall’età classica, un’area separata
dal mondo romano lungo le valli del Reno e del Danubio, ora si può
trovare un limite
orientale.
4.
Lettura e lettori
4.1.
I libri
Per
noi oggi leggere
è
un’operazione a cui siamo stati abituati fin da bambini, e che, con maggiore
o minore competenza, esercitiamo quasi inconsapevolmente.
Anche fuori
dal mondo dei
libri, ovunque giriamo lo sguardo ci troviamo di fronte ad una selva
di parole scritte:
etichette
nel supermercato, cartelli stradali, firme di grandi sarti sulle
mutande.
Perfino il telefono,
nato per trasmettere a distanza la voce, è diventato per i più uno
strumento usato prevalentemente
per comunicare mesaggi scritti.
Per
noi leggere un libro in una lingua
diversa dalla nostra,
per esempio un libro in latino, presuppone
la conoscenza della struttura e del lessico di quella lingua.
Non è
una cosa semplice,
certo: quelli che hanno fatto un liceo si pavoneggiano come fossero
dei grandi latinisti,
anche se ben pochi di loro sono effettivamente capaci di comprendere
un testo relativamente
semplice. Ma una volta padroneggiata questa disciplina, si apre
immediatamente
un
immenso campo di conoscenze.
Nell’alto
medioevo le cose erano più complicate.
La
scrittura
era un
fatto eccezionale.
Il materiale su cui scrivere, la pergamena, era
molto raro
e
costoso; per questo si cercavano dei sostituti più economici, per
esempio le tavolette in legno
già
note nell’antichità.
Un libro
era un
bene rarissimo, e quasi sempre difficilmente
decifrabile.
I
codici
miniati che
ammiriamo nelle vetrine dei musei, nei libri d’arte, erano come
quadri di grandi
autori, beni la cui rarità e il cui valore artistico era
infinitamente superiore alla loro utilità
come veicoli di parole.
Si ricercavano quindi scritture più
economiche, fatte su
materiale
spesso raccogliticcio: vediamo atti notarili o pubblici scritti su
pezzi di pelle dalla forma
irregolare, con lacerazioni a volte malamente ricucite. Era normale
l’uso di raschiare pazientemente
vecchie scritture per ottenere del materiale riutilizzabile.
E su
questo materiale così
irregolare, si scriveva a mano, con grafie
varie
e spesso assai irregolari.
Ai tempi di Carlo
comincia a diffondersi l’uso di nuovi caratteri, noti come
“minuscola carolina”, da cui derivano
le scritture che usiamo oggi, sia nel “corsivo” sia nello
“stampatello”.
Ma la gran parte
dei testi scritti doveva ancora mostrare quel guazzabuglio di zampe
di gallina che si chiama
all’ingrosso “scrittura
merovingia”
o “merovingica”:
una grafia intricata di legature e
abbreviazioni, per di più assai diversa da una cancelleria
all’altra, da uno scriptorium all’altro.
Soprattutto, la punteggiatura
era
quasi sempre scarsa, largamente arbitraria; molto spesso
del tutto assente.
La
lettura di questi testi era molto difficile; occorreva riconoscere le
singole lettere, separare le parole,
sciogliere le abbreviazioni, ricomporre la struttura della frase e
dare ad essa la giusta intonazione,
per comprendere i legami sintattici.
E l’unico modo per farlo era
la lettura
ad alta
voce.
Oggi leggere compitando poco per volta sillaba dopo sillaba, parola
dopo parola, è il segno
inequivocabile di quasi totale analfabetismo, o di grave dislessia.
Allora era l’unica pratica
conosciuta; e come nell’età classica e postclassica, la lettura
silenziosa era un’abilità eccezionale,
quasi miracolosa, che suscitava meraviglia.
Insomma,
l’uso universale di una lingua già molto diversa dalla lingua
parlata non era l’unico ostacolo,
e forse neanche il più grosso.
Anche
nell’ambiente ecclesiastico, solo una minoranza possedeva alcuni
libri, o aveva accesso
a
qualche biblioteca.
E l’apprendimento della lettura richiedeva
grande applicazione e capacità, uno
studio di anni.
4.2.
Lettura e devozione
Adesso
a noi pare ovvio dire che gli ecclesiastici, almeno lo strato più
colto, avessero famigliarità
con la lettura.
Ma dobbiamo porci in un clima culturale completamente
diverso.
Per
noi la lettura di un libro – che è sempre lettura silenziosa –
ha come fine la conoscenza del contenuto
di qusto libro; anche se si tratta di libro d’evasione, di un
leggero romanzetto, è un’esperienza
intellettuale che richiede un minimo di esame critico e giudizio
analitico.
Nel
mondo ecclesistico dell’Alto Medioevo la lettura è essenzialmente
un atto
di devozione, che
si tratti di lettura delle Sacre Scritture, di vite dei santi, o
materiale consimile.
Nella
lectio
divina,
la lettura della Sacra Scrittura, la prima finalità non è
comprendere il testo,
ma lasciarsi compenetrare dalla Parola di Dio.
La lettura è
un’esperienza mistica, di totale
abbandono. Come in molte altre religioni, la lettura richiede una
particolare intonazione,
detta salmodia,
che trasforma la parola in puro suono.
La lettura coinvolge l’intera
persona del lettore, non solo la mente e la voce, ma tutti gli organi
della respirazione e
della
fonazione, con uno sforzo fisico costante.
Nella bocca del lettore,
la parola viene ruminata,
si diceva, per diventare vita e movimento dell’anima e di tutto il
corpo. Questa pratica,
esercitata per anni, portava ovviamente anche ad imparare a memoria
vaste sezioni della
Bibbia.
La lettura quotidiana del Salterio
era
codificata da precise norme comprese nelle
Regole, che prescrivevano quali Salmi leggere, a seconda delle ore
del giorno e delle stagioni
dell’anno; a questi molte congregazioni aggiungevano letture
supplementari, “supererogatorie”,
che portavano il tempo di lettura ad assorbire quasi del tutto le
energie del
monaco.
Nello
stesso mondo ecclesiastico, “lettura e comprensione”, come si
richiede da noi fin dall’apprendimento
elementare, era un punto d’arrivo riservato a pochissimi grandi
ingegni.
Di
conseguenza, come in tutte le società antiche, la pratica della
parola
e
della memoria aveva
una diffusione, un’importanza e una potenza per noi impensabili.
Importantissime questioni
di ordine pratico, politico, giuridico, religioso, letterario ecc.
venivano discusse fra
esperti
riuniti in un consesso, secondo rituali consolidati. Enormi quantità
di nozioni, complicatissime
narrazioni, lunghissime composizioni poetiche venivano ritenute a
memoria, e
trasmesse anche per secoli attraverso l’esposizione / narrazione /
recitazione di fronte ad un
pubblico
attentissimo e pronto ad imparare tutto a memoria, parola per parola;
ma anche a riprendere
l’oratore / narratore / cantore, se commetteva il minimo sbaglio
rispetto ad un contenuto
che era già di dominio pubblico.
4.3.
Dal libro alla parola
Carlo
seppe circondarsi di personaggi di grandissimo valore intellettuale,
fra cui lo stesso Eginardo
è uno dei più rappresentativi.
Con la loro collaborazione riuscì a
concepire un progetto
politico e culturale di
altissimo livello, forse troppo avanzato per l’epoca, tanto che dopo
la sua morte fu in parte abbandonato, per essere ripreso secoli dopo,
in altri modi e da altri
soggetti.
Di
questo pool di intellettuali però Eginardo cita solo due nomi: uno è
Pietro
da Pisa,
l’altro il già
ricordato Alcuino.
(Cap. 25)
Sicuramente
Alcuino
era il
personaggio più prestigioso, quello a cui tutti guardavano come un maestro.
Versato in quasi tutte le scienze, ebbe un ruolo decisivo nella
“rinascenza carolingia”, nella
riforma del clero e nell’alfabetizzazione dell’aristocrazia
franca.
Il
giovane Eginardo, arrivato alla corte regia quando aveva forse una
ventina d’anni, ebbe subito
con lui un rapporto quasi filiale.
I membri della schola
palatina si
riconoscevano in uno
pseudonimo un po’ scherzoso, che indicava una loro
caratteristica
specifica.
Alcuino aveva
scelto per sé quello di Flaccus,
che è il terzo nome del poeta Orazio; scherzando sulla piccola
statura di Eginardo, lo chiamava nardulus
“fiorellino
profumato”, e, con allusione alle sue
competenze tecniche, Beseleel,
dal nome dell’artigiano costruttore dell’Arca e di altri arredi
del Tempio.
Pietro
da Pisa,
all’epoca già senex,
“vecchio”, veniva considerato un grande grammatico; di lui
ci sono rimaste diverse operette, fra cui Quaestiunculae
in
forma di domanda e di risposta su
diversi argomenti grammaticali, e una Ars
Petri che
commenta Elio Donato e altri grammatici
latini.
Quale
può essere stato il rapporto fra questi personaggi e Carlo? A parte
gli incarichi ufficiali, Eginardo
parla di una frequentazione
assidua,
di un vero e proprio
insegnamento impartito daquesti
e dagli altri grandi sapienti al sovrano, anche se, ovviamente, in
modo non sistematico e
formalizzato,
ma durante lunghe libere conversazioni, spesso a
pranzo,
come aveva già anticipato
nel Cap. 24, a volte addirittura nel bagno,
tutti immersi nei “tiepidi lavacri
d’Aquisgrana”.
In queste conversazioni Carlo riceve una vasta, anche se sicuramente
non sistematica,
istruzione nelle “arti
liberali”:
grammatica, retorica, dialettica, astronomia e matematica.
Ma
come si fa ad insegnare queste discipline ad un analfabeta, per di
più costantemente impegnato
nei gravosi compiti di amministrazione del regno, e che in tutte le
ore del giorno, a volte
anche della notte, dà udienza a una folla di funzionari per
affrontare grandi o piccole questioni
e dirimere controversie?
Carlo
durante il pranzo amava udire qualche acroama
o
qualche lettore.
Per quanto riguarda il primo
termine, di origine greca e di significato quanto mai vario, forse
non andiamo troppo
distante
dal vero parlando di una qualche forma di intrattenimento di pura
evasione.
Per quanto riguarda
invece la lettura, invece, Eginardo ci dà informazioni più precise.
Ci parla di non meglio
precisate storie
degli antichi,
campo invero assai ampio e vario, e qualche lettura decisamente
più impegnativa, fra cui le opere di Sant’Agostino
e
soprattutto La
città di Dio.
Quest’ultima
informazione, data in modo netto e preciso, pone dei grossi problemi.
Di sicuro non
si trattava della lettura integrale del testo latino.
Ed è anche
difficile che si trattasse di una
traduzione più o meno letterale.
La
città di Dio è
un’opera di notevole mole, che contiene
un’analisi
molto puntuale, diciamo pure a volte minuziosamente pedantesca, di
innumerevoli questioni
relative alle letterature classiche, alla filosofia, soprattutto
platonica e neoplatonica, alle
Sacre Scritture.
È un’opera che il lettore moderno non può
affrontare senza una solida preparazione
letteraria e filosofica, ed anche in questo caso necessiterà di un
buon apparato di note.
Difficile immaginare un’esposizione di questo genere a tavola,
mentre il maestoso ascoltatore
mangia con gusto grandi quantità di selvaggina arrostita.
Il
“lettore”
(non sappiamo quale dei saggi della Schola
Palatina si
assumesse questo gravoso compito)
più che un semplice lettore, più che traduttore, ed anche più che
commentatore,doveva
essere un autentico “mediatore
culturale”,
capace di trasporre le categorie della
cultura
classica di cui Agostino era imbevuto, nel mondo, da questa
lontanissimo, di Carlo.
Il
compito di presentare le basi della grammatica
a
Carlo ricadeva soprattutto sulle spalle di Pietro
da Pisa.
L’insegnamento
della grammatica, ovviamente latina, presupponeva già una certa
conoscenza della
lingua; essa si basava fondamentalmente sull’opera degli autori
antichi, fra cui soprattutto
Elio
Donato,
la cui Ars
Minor esponeva
quella dottrina che tutti noi abbiamo conosciuto
alla scuola dell’obbligo come “analisi grammaticale”: che cos’è
il nome, il
pronome,
il verbo... L’utilità pratica di questo insegnamento, impartito ad
un analfabeta, la cui
lingua madre era il franco, e che se la cavava sì bene con il
“latino” parlato, ma non era
mai
riuscito a raggiungere la capacità di praticare autonomamente la
lettura e la scrittura, doveva
essere modestissima.
Poteva servire a stimolare la sua curiosità, a
soddisfare il suo
compiacimento
per essere riuscito a far venire al proprio servizio uomini famosi
nel mondo per
cultura e saggezza, a comprendere un po’ meglio il senso delle
lunghissime e ripetitive celebrazioni
religiose, campo in cui abbiamo visto che non voleva mostrarsi
impreparato.
Gli forniva
forse un po’ di terminologia “colta” da inserire con noncuranza
nei contatti con gli ambasciatori
stranieri, con i grandi ecclesiastici, con i principi e i re del
mondo, per far vedere come
anche un sovrano “barbaro” con capelli lunghi baffi e pantaloni
poteva all’occorrenza tenere
testa ai “romani” con la loro clamide, la loro faccia sbarbata e
il loro parlare forbito.
Poteva
soprattutto fargli intravvedere, per quanto in modo molto sfocato, la
prospettiva di un potere
imperiale che un giorno si sarebbe imposto al mondo non solo con la
forza delle armi, ma
con il prestigio
delle lettere e delle leggi.
Restiamo
in ammirazione di fonte a questo gruppo di intellettuali che riescono
a fare da ponte tra
due
mondi culturali ancora lontanissimi,
sia dal punto di vista concettuale, sia soprattutto da
quello delle modalità di comunicazione. Con un enorme sforzo da
entrambe le parti, il più grande
degli illetterati, e i più dotti fra i letterati, riescono ad
incontrarsi, a intrecciare i codici, a
stabilire un dialogo ricchissimo di frutti non solo per loro, ma per
tutta l’Europa.
Naturalmente
anche Carlo, come Renzo Tramaglino, volle che almeno i figli
imparassero
quella
“birberia” del leggere e dello scrivere.
5.
La lingua del re e la lingua del regno
5.1.
Dalla parola al libro
Informazioni
interessantissime vengono dal Cap. 29, in modo apparentemente casuale
e frammentario.
Carlo fece
raccogliere e mettere per scritto le “leggi”,
fino a quel tempo trasmesse solo oralmente,
dei due gruppi principali che componevano il popolo dei Franchi (non
vengono
nominati, ma si tratta dei Salii
e dei
Ripuarii);
e cercò di integrarle e completarle
(queste integrazioni sono comprese nei Capitolari
n. 39
e n. 41 raccolti nei
Monumenta
Germaniae Historica).
Fece raccogliere anche le leggi degli altri popoli;
raccolte
che ci sono arrivate in diverse redazioni.
Fece
raccogliere, mettere per iscritto, e lui stesso imparò a memoria,
antiquissima carmina
(“canti
antichissimi”) delle vicende e delle guerre dei Franchi – di
questi canti
purtroppo
non è rimasto nulla.
Inchoauit
et grammaticam patrii sermonis (“cominciò
anche una grammatica
della lingua
patria”); di quest’iniziativa non abbiamo nessun’altra notizia.
Tradusse
nella propria lingua i nomi dei mesi
e dei
venti,
cioè dei punti cardinali: così Ianuarius
diventava
wintarmanoth
“mese
d’inverno”, septentrio
diventava nordroni
wint “vento
del nord” ecc.
Tutte
queste iniziative hanno in comune il passaggio dalla cultura
orale alla
cultura
scritta.
Per
quanto riguarda la raccolta e la redazione delle leggi tradizionali,
si tratta di un lavoro che era
già iniziato parecchio tempo prima e durò secoli, in tutta l’area
germanica: dal Codex Euricianus
(“Codice
di Eurico”) che intorno al 470 raccolse il diritto visigotico, fino
al
Sachsenspiegel
(“Specchio
Sassone”) del 1220~1230 ca., che a differenza dei precedenti è redatto
in tedesco e non in latino.
Anche le raccolte di Carlo sono in
latino, con l’inserimento
di
vocaboli in lingua germanica per indicare istituzioni specifiche.
Eginardo dice che Carlo si dedicò
a quest’opera post
susceptum imperiale nomen “dopo
aver assunto il titolo imperiale”;questa
non è un’indicazione cronologica precisa, piuttosto l’affermazione
di uno stretto legame fra
la ricerca
del diritto tradizionale,
la sua integrazione
alla luce delle nuove esigenze di governo,
e la costruzione
di un nuovo Stato.
Non
essendoci arrivato nulla degli antiquissima
carmina,
non sappiamo con certezza neanche in
quale lingua fossero redatti, ma se dopo averli fatti scrivere
(scripsit)
Carlo li imparò a memoria
(memoria
mandavit)
possiamo supporre che fossero riportati nella lingua originale, cioè
nel patrius
sermo del
Re.
Saltiamo
all’ultimo punto, i nomi dei mesi
e dei
venti.
Lasciando l’interpretazione dei nomi ai
germanisti,
si può osservare che in tutte le epoche antiche il calendario
è
sempre stato di competenza
della massima
autorità religiosa.
A Roma era il collegio dei pontefici che stabiliva
volta per volta la durata dei mesi; Cesare introdusse la sua riforma
avendo assunto la carica
di pontifex
maximus,
e sempre come pontifex
maximus Costantino
sancì la definizione
della
data della Pasqua elaborata dal Concilio di Nicea; infine, il
calendario che usiamo oggi prende
il nome da papa Gregorio XIII.
Tutti hanno fatto notare la curiosa
analogia tra il calendario
carolingio e quello rivoluzionario, adottato in Francia quasi mille
anni dopo.
A parte
l’idea di dare nuovi nomi ai mesi, la grande
innovazione del 1793
fu il primo calendario adottato
su iniziativa di un potere
civile;
e quello di Carlo anticipa, in un certo qual modo, quest’innovazione.
Quanto
alla rosa
dei venti,
Eginardo ci dice che fino a quel momento i Franchi avevano solo quattro
punti cardinali; l’innovazione non riguarda solo la lingua, si
cerca di adottare
un’organizzazione
dello spazio geografico ed astronomico su dodici direzioni diverse,
secondo il
modello
consolidato della cultura classica.
Passiamo
ora alla grammatica
del
patrius
sermo,
che è veramente l’iniziativa più sorprendente.
Abbiamo visto che per tutta l’antichità e per tutto il medioevo,
grammatica significa
lingua
latina (o
greca).
Il latino (il greco in Oriente) è l’unica lingua scritta
nel
mondo
cristiano; e non si riesce a trovare altro uso di quella scienza
specifica che è la grammatica
che non sia la descrizione e la normazione della lingua
scritta.
Questi punti erano all’epoca
talmente ovvi che non si sentiva neppure il bisogno di esplicitarli.
L’idea di una grammatica
di una
lingua diversa dal latino; di una
lingua esclusivamente parlata, non
era impossibile, era impensabile:
come insegnare a un asino a volare.
Questo progetto di una
“grammatica” della lingua franca, era quindi di un’arditezza
straordinaria; e non poteva
preludere
ad altro che ad un
uso sistematico di quella lingua nella scrittura.
Scrittura, tendenzialmente,
in tutti
i campi d’applicazione di
questa, compresi quelli ufficiali che richiedono
una lingua
rigorosamente normata.
Si
dice comunemente che il rimescolamento etnico dell’età
altomedievale rendeva le varie genti
germaniche costantemente in contatto fra di loro, e che le diverse
lingue etniche avevano
un elevato grado di reciproca
comprensibilità;
anzi, vi sono testi, come l’Hildebrandslied
che
mostrano già ai tempi di Carlo l’evidenza di un forte pastiche linguistico,
con forme franche, sassoni, alto tedesche.
Questo è sicuramente
vero; ma mentre la
raccolta di canti tradizionali può documentare questa variabilità
linguistica (cosa che dipenderà
molto anche dalla competenza e dagli usi linguistici dello scrivano),
la redazione di una
grammatica impone inevitabilmente un processo di selezione, non può
essere la semplice raccolta
del parlare comune in tutte le sue varietà. Una grammatica deve fare
delle scelte,
e
presentare
dei modelli che assumeranno inevitabilmente una funzione
esemplare e normativa.
Si
è anche detto che con questa grammatica
Eginardo
volesse essenzialmente indicare la costruzione
di una norma
ortografica capace
di dare uniformità alla redazione di testi in lingua
germanica.
È molto probabile che sia così, ma questo conferma
quanto detto sopra.
L’ortografia
non è solo quell’insieme di banali regolette a cui spesso
pensiamo; la costruzione di
un alfabeto adatto ad una lingua esclusivamente orale, come nel caso
dell’alfabeto gotico di
Wulfila, comporta una seria
riflessione sulla fonologia di
quella lingua, e sulla sua struttura
grammaticale, perché come minimo si dovranno individuare i
componenti del discorso,
renderli riconoscibili anche quando ci si trova di fronte a processi
di fusione o omofonie,
eventualmente affrontare il tema di forme “deboli” o “ridotte”,
rendere riconoscibili
in modo inequivocabile i marcatori morfologici ecc.
Se si affrontano
questi problemi
“sul campo”, nell’analisi concreta della lingua viva, si può
arrivare a riflessioni
grammaticali
veramente approfondite.
Se invece si fosse preso alla lettera il termine “grammatica”,
se l’esperimento fosse stato quello di adattare Elio Donato ad una
lingua germanica,
il risultato sarebbe stato inevitabilmente fallimentare.
Riassumendo,
l’operazione descritta da Eginardo rappresenta lo sforzo di
promuovere l’identità
nazionale franca dalla cultura orale alla scrittura;
e per far questo salto non bastava
trascrivere su carta le parole della lingua quotidiana e della
tradizione orale, occorreva arrivare
ad una sistematizzazione
e
normazione
di
quella cultura e di quella lingua.
5.2.
Un Impero della nazione franca?
A
parte la raccolta delle leggi, gli altri punti indicati precedentemente sono documentati esclusivamente
dal principale storico di Carlo Magno, un uomo di grande cultura che
aveva avuto
il privilegio di condividere per lunghi anni le assidue
frequentazioni fra l’imperatore e il
gruppo di intellettuali riunito nella sede palatina di Aquisgrana.
Non posssiamo dubitare che
Eginardo riporti fedelmente un progetto in cui probabilmente lui
stesso era direttamente
coinvolto.
Il fatto che non abbiamo traccia da nessun altra parte di queste
iniziative, fa però pensare
che questo progetto culturale, appena abbozzato, sia stato messo in
atto solo in
minima
parte, e presto dimenticato.
Possiamo
solo tentare di immaginare quale sarebbe il risultato se questo
progetto fosse stato portato coerentemente a termine.
Il predominio politico dell’aristocrazia
franca sarebbe stato
accompagnato
da una forte
caratterizzazione in senso etnico-linguistico dell’Impero.
Franche
sarebbero state le leggi, sia pure armonizzate con quelle degli altri
popoli dell’Impero,
e aggiornate secondo le esigenze di uno Stato che vuole porsi come
continuatore
dello
Stato di Costantino e di Giustiniano.
Franca la poesia, l’epica, e
su di essa si sarebbe formato
il “mito” di una grande
nazione,
di un grande Regno
e di
un grande Re,
capace di portare
la pace fra nazioni così diverse e ostili fra di loro; e franca
sarebbe la lingua, la lingua
dell’Imperatore,
quindi la lingua di tutto l’Impero.
Una lingua che non si confonde
con il coacervo
dei popoli dominati, siano essi “Germani” o “Romani”; ma è
in grado di dominarli tutti,
così come avevano fatto gli antichi imperatori con la lingua latina.
Rimane
il fatto che questo progetto, se mai è esistito, è fallito, anzi,
non è mai uscito dallo stadio
degli studi preliminari.
L’Impero
ha preso tutta un’altra strada.
L’elemento unificatore
dell’Europa medievale è stata la religione
cristiana,
e quindi la lingua della La
lingua di
Chiesa:
il latino.
E al di sotto di questo grande ombrello sovranazionale, si è formata
la molteplicità
delle lingue dell’Europa moderna.
6.
La fine del mondo franco
Oggi
Aquisgrana,
la capitale dell’Impero di Carlo, è una città
di frontiera.
È la città più occidentale
della Repubblica Federale Tedesca, e si trova esattamente
all’incrocio dei confini di
tre nazioni: la Germania,
l’Olanda,
e il Belgio
francofono.
Ai
tempi di Carlo non era così. Aquisgrana era il centro
dell’Austrasia,
al confine fra le sedi tradizionali
dei Salii
e dei
Ripuarii;
lì si era formato il regno dei Merovingi,
che Clodoveo aveva
ricevuto in eredità dai suoi antenati, e da cui era partito per
l’espansione in Gallia e Germania.
L’idea che Aquisgrana potesse diventare il centro
irradiatore della supremazia culturale
dei Franchi su
tutta l’Europa cristiana poteva sembrare realistica.
Col
senno del poi, sappiamo che non era così. Ancora vivente Carlo,
nell’813 il Concilio
di Tours
aveva
raccomandato di utilizzare nelle omelie rusticam
Romanam linguam aut
Theodiscam,
quo facilius cuncti possint intellegere quae dicuntur (“la
lingua romana rustica o la
‘teodisca’, affiché tutti possano comprendere più facilmente
quel che si dice”). Come ho già avvertito,
la traduzione di theodiscus (theotiscus)
con “tedesco” è, all’epoca, ancora unanacronismo;
ma non abbiamo una traduzione alternativa. In quella frase, l’accento
non è sul carattere
etnico
della
lingua, ma sul suo status di lingua parlata,
popolare, rustica.
Ma proprio
nella sua genericità, tale dichiarazione sembra negare
una specificità della lingua
franca.
Anche quella, nel calderone del theodiscus.
Dopo
i primi, rari, incerti documenti scritti, alcuni risalenti all’età
carolingia, come il cosiddetto
Abrogans,
un brevissimo lessico latino-tedesco, dal X secolo comincia ad
emergere in
modo sempre più chiaro una letteratura in lingua
tedesca.
Ma questo tedesco non è la lingua
di Aquisgrana, che è ancora oggi inserita nell’area del
Ripuarisch,
una forma di “basso” tedesco
(Platt);
quello
che prevale è il tedesco “alto”,
della Germania meridionale.
La lingua dei
franchi, nonostante gli sforzi di Carlo e dei suoi collaboratori,
perde
il treno della propria formalizzazione
come lingua scritta,
e quindi l’occasione di diventare la base della koiné germanica.
Anche
il centro del potere politico si sposta decisamente verso est e verso
sud: la dinastia ottoniana,
espressione di quella Sassonia
che
Carlo aveva sottomesso con feroce energia, nella
seconda metà del X secolo si lancia in un ardito programma di
rinascita dell’istituzione imperiale
attraverso il recupero
del mito romano,
e quel legame organico tra impero e papato che
Carlo, pur avendo ereditato dai suoi antenati e promosso con grande
determinazione,
viveva
con un certo fastidio, come una limitazione della sua autorità.
L’antica
Austrasia
franca,
la regione renana di Carlo ed Eginardo, si trova ora marginalizzata politicamente,
mentre ad occidente sotto il predominio dell’aristocrazia germanica
riemerge poco
per volta il substrato
romano.
Le masse subcontinentali d’Europa si separano lungo una
linea
di faglia che diventa il confine
franco-tedesco,
così critico per tutta la storia d’Europa.
L’identità
dell’Austrasia franca viene cancellata, Aquisgrana si trova
proiettata sulla punta di un
promontorio, di fronte ad una Francia
che
non è più la “terra dei Franchi”, ma dei
Francesi.
E ad oriente di quel confine la lingua dei Franchi si frammenta lungo
un gradiente nord-sud,
dando origine ad una serie di dialetti
tedeschi occidentali segnati
dalla maggiore o minore
penetrazione della “seconda rotazione consonantica”.
Eginardo
era consapevole di questa trasformazione?
Quando abbandona la corte
di Ludovico, e comincia
(secondo la ricostruzione della maggior parte degli studiosi) a
scrivere la sua biografia
di Carlo, avendo da una parte la Vita
svetoniana di Augusto,
dall’altra gli Annali del
Regno franco,
riusciva a percepire la lenta erosione che avrebbe portato alla fine
del suo mondo?
Se
questa ricostruzione ha un senso, Eginardo, che in questo progetto
credeva, che ne fosse consapevole
o no, è il grande
perdente.
Per questo ne ha scritto la storia, come fanno di solito
i
vinti.
I vincitori, la storia la fanno, non la scrivono.
E ringrazio Maurizio
Pistone per la sua ricerca.